Ed eccolo qui sulla scena del Teatro Pirandello di Agrigento, dopo circa tre anni, un nuovo adattamento di “Uno nessuno centomila” l’ultimo romanzo che “l’uomo del Kaos” definì “più amaro di tutti, profondamente umoristico, di scomposizione della vita”.
Archiviata l’edizione di tre anni fa, interprete Enrico Lo Verso, balza subito in primo piano questa messinscena del regista Antonello Capodici che con l’interpretazione di Pippo Pattavina, una delle colonne del teatro italiano, porta al successo questo atto unico estremamente impegnativo per un attore e per la soluzione francescana della vicenda. Chi ha il coraggio della testimonianza potrebbe gridare “noi siamo Gengè”. Ma in tempi di Mariupol e di Bucha non sembra sia una ipotesi percorribile.
Di sicuro quel Pirandello che confessava ai suoi familiari “Vado spesso in teatro, e mi diverto e me la rido in veder la scena italiana caduta tanto in basso, e fatta sgualdrinella isterica e noiosa“, oggi uscirebbe felice e pimpante dalla visione teatrale del suo Vitangelo Moscarda, alias Gengè, caduto tra le braccia dell’ottantreenne Pippo Pattavina, della iper-femminile Marianella Bargilli (modellata come la “Valentina” di Crepax), e poi di Rosario Minardi, Giampaolo Romania, Mario Opinato, le musiche originali di Mario Incudine e le scene di Salvo Mangiagli che rivestono di “vita contro la forma”, l’adattamento del regista Capodici.
Di contro un pubblico che nel primo tempo non applaude, evidentemente incassando lo sganassone pirandelliano, ma che poi alla fine annuisce e applaude (si spera non per timore di avere sbagliato). Bisognerebbe chiedersi perché alla fine Vitangelo convince nell’Italietta del “sovranismo psichico” (come lo chiama il Censis) e perché tutto sommato riscuota immediati applausi e consensi, come altrove è avvenuto. Certo sono molti i segnali che provengono anche da lavori teatrali meno importanti e cioè che ormai siamo di fronte ad una vera fabbrica dell’interpretazione teatrale.
Gli spettacoli si fondano sempre più sulla figura e la competenza tecnica dei protagonisti piuttosto che sulla regia o sul testo, anche se qui il testo, alla fine, si fa assaporare per le sue scenografie indovinate” che assecondano e rimandano pittoricamente all’’innato vitalismo pirandelliano che sorregge l’azione di Vitangelo nel riconquistare la vita per sconfiggere la forma, dichiarando: ”La vita non conclude. E non sa di nomi, la vita. Quest’albero, respiro tremulo di foglie nuove. Sono quest’albero. Albero, nuvola, domani libro o vento: il libro che leggo, il vento che bevo. Tutto fuori, vagabondo”.
Presenza necessaria e non più dietro le quinte, Dida (Marianella Bargilli) la moglie “scassacazzi” di Vitangelo senza la quale (“Ma si, caro, il naso ti pende verso destra”) non avremmo avuto la rivoluzione personale di “Gengè” Moscarda e l’amica del cuore Anna Rosa (sempre l’ineffabile Bargilli) che seduce prima il protagonista e poi gli spara da perfetta dark lady.
Così ci racconta Vitangelo nei suoi flashback , come fa il protagonista (William Holden) già morto nella piscina di “Viale del tramonto”. Qui Gengè fa ancora meglio con una scelta che gli costerà un prezzo altissimo, donando se stesso e i suoi beni come fece Francesco figlio di Pietro Bernardone di Assisi.
Un attore generoso, Pippo Pattavina che per due orette si è incaricato di un quasi soliloquio spossante assumendosi in toto la responsabilità artistica della vita teatrale di un testo. Non si tratta di un personaggio in cerca d’autore ma di un attore che destina se stesso a farsi personaggio in quella commedia a oltranza che è la vita per chi cerca di “essere” nel rappresentare.
Un esempio di “trasformismo vitale” che dovrebbe pur dire qualcosa ai trasformisti della politica.