Carlo Alberto Dalla Chiesa, che incarno’ la speranza dei siciliani onesti e mori’ ucciso da Cosa Nostra il 3 settembre del 1982, era gia’ stato in Sicilia come ufficiale dei carabinieri dal 1949 ai primi anni ’50 e successivamente dal 1966 al 1973. Da generale aveva coordinato la lotta al terrorismo ed era stato nominato prefetto di Palermo dopo l’omicidio di Pio La Torre e Rosario Di Salvo, per fermare la mattanza mafiosa. Aveva chiesto piu’ volte, ma senza ottenerli, poteri effettivi di coordinamento della lotta a Cosa nostra. Furono cento giorni di impegno determinato, oltre ogni ostacolo, e di solitudine. Fino al tragico epilogo.
Quel venerdi’ sembro’ davvero che fosse per sempre “morta la speranza dei palermitani onesti”, come scrisse un cittadino del capoluogo siciliano su un lenzuolo nel luogo della strage. Durante i funerali, il cardinale Salvatore Pappalardo tuono’ dall’altare usando le parole di Tito Livio: “Dum Romae consulitur… Saguntum espugnatur. Mentre a Roma si pensa sul da fare, la citta’ di Sagunto viene espugnata e questa volta non e’ Sagunto, ma Palermo! Povera Palermo nostra”. I mandanti e alcuni esecutori sono stati condannati all’ergastolo. Ma, come disse l’allora presidente del Senato Pietro Grasso, “per gli omicidi eccellenti bisogna pensare a mandanti eccellenti”. La loro ricerca sembra non avere fatto significativi passi avanti e l’unica verita’ giudiziaria e’ compendiata nelle sentenze di condanna per due sicari e per i vertici della cupola tra cui Toto’ Riina, Bernardo Provenzano, Michele Greco e Pippo Calo’. “Si puo’ senz’altro convenire con chi sostiene che persistano ampie zone d’ombra, concernenti sia le modalita’ con le quali il generale e’ stato mandato in Sicilia a fronteggiare il fenomeno mafioso, sia la coesistenza di specifici interessi, all’interno delle stesse istituzioni, all’eliminazione del pericolo costituito Dalla determinazione e Dalla capacita’ del generale”, affermo’ la sentenza con cui nel 2002 la corte d’Assise inflisse l’ergastolo i killer Raffaele Ganci, Giuseppe Lucchese, Vincenzo Galatolo e Nino Madonia, e a 14 anni i pentiti Francesco Paolo Anzelmo e Calogero Ganci.
Nell’ultima intervista a Giorgio Bocca, il prefetto spiego’ che “un uomo viene colpito quando viene lasciato solo”. E il pubblico ministero Nico Gozzo nella sua requisitoria parlo’ di “un delitto maturato in un clima di solitudine: Carlo Alberto Dalla Chiesa fu catapultato in terra di Sicilia nelle condizioni meno idonee per apparire l’espressione di una effettiva e corale volonta’ dello Stato di porre fine al fenomeno mafioso”. Inevitabili, secondo il magistrato, gli effetti di questo ‘abbandono’: “Cosa nostra ritenne di poterlo colpire impunemente perche’ impersonava soltanto se stesso e non gia’, come avrebbe dovuto essere, l’autorita’ dello Stato”. Gli uomini della cupola erano gia’ stati condannati nel maxiprocesso nato proprio da un rapporto di Dalla Chiesa contro 162 esponenti di Cosa nostra e consolidato, nel suo impianto accusatorio, dal contributo di alcuni grandi pentiti come Tommaso Buscetta, Totuccio Contorno e Francesco Marino Mannoia. Il ‘superprefetto’, nato a Saluzzo (Cuneo) il 27 settembre del 1920, ritorno’ a Palermo con procedura d’urgenza dopo avere affrontato la malavita del nord, la mafia siciliana e le brigate rosse. Era la sera del 30 aprile del 1982, poco dopo l’uccisione del segretario siciliano del Pci, Pio La Torre, terzo uomo politico assassinato nel giro di qualche mese dopo Piersanti Mattarella, democristiano, presidente della Regione siciliana, e Michele Reina, segretario della Dc palermitana. Ma durante i suoi cento giorni a Palermo non ebbe quei poteri speciali piu’ volte inutilmente richiesti.
IL RICORDO DEL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA MATTARELLA
“La uccisione, quaranta anni or sono, del Prefetto Carlo Alberto Dalla Chiesa e della moglie Emanuela Setti Carraro, il ferimento mortale dell’agente Domenico Russo, deceduto alcuni giorni dopo, gettarono Palermo, la Sicilia, il Paese intero nello sgomento. Ancora una volta la ferocia della violenza criminale mafiosa, in un crescendo di arroganza, non risparmiava un servitore della Repubblica né le persone che avevano l’unica colpa di essergli vicine”. Lo scrive in un messaggio il presidente della Repubblica Sergio Mattarella. “Quell’estremo gesto di sfida contro un eroe del nostro tempo, un Carabiniere protagonista della difesa della democrazia contro il terrorismo – sottolinea -, si ritorse contro chi lo aveva voluto. La comunità nazionale, profondamente colpita da quegli avvenimenti, seppe reagire dando prova di compattezza e di unità d’intenti contro i nemici della legalità, delle istituzioni, della convivenza civile. Strumenti più incisivi di azione e di coordinamento vennero messi in campo, facendo tesoro delle esperienze di Dalla Chiesa, rendendo più efficace la strategia di contrasto alle organizzazioni mafiose. Quello sforzo fu sostenuto e accompagnato da un crescente sentimento civico di rigetto e insofferenza verso la mafia, che pretendeva di amministrare indisturbata i suoi traffici, seminando morte e intimidazione. Commozione e sdegno alimentarono le speranze dei siciliani onesti, ne rafforzarono il rifiuto della prepotenza criminale”. “La lezione di vita del Prefetto Dalla Chiesa, la memoria delle vittime di quel vile attentato – prosegue il Capo dello Stato – vivono nell’impegno delle donne e degli uomini che nelle istituzioni e nella pubblica amministrazione operano per la difesa della legalità, dei giovani che vogliono costruire una società più giusta e trasparente, dei tanti cittadini che, consapevoli dei loro diritti e doveri, avversano responsabilmente la cultura della sopraffazione e della prevaricazione. Nel rendere omaggio al ricordo di quell’estremo sacrificio, rinnovo alle famiglie Dalla Chiesa, Setti Carraro e Russo la solidale vicinanza mia e dell’intero Paese”.