“Costituisce plastica dimostrazione di come la scelta di vita degli indagati sia fondata, già in termini culturali e ‘ideali’, proprio su un principio di contrapposizione ai fondamenti della libertà democratica e al rispetto delle regole, il reiterato utilizzo delle parole ‘sbirro’ o ‘carabiniere’, quali vere e proprie offese, che si ritrova in più conversazioni intercettate”. Lo scrive il gip di Palermo nell’ordinanza di custodia cautelare a carico di 31 indagati accusati, a vario titolo, di partecipazione ad associazione di tipo mafioso, detenzione e produzione di stupefacenti, detenzione di armi, favoreggiamento personale e estorsione con l’aggravante del metodo mafioso.
Ne è prova un”intercettazione del maggio del 2019, in cui Maurizio Di Fede, boss del clan di Roccella, arrestato lo scorso luglio, sbotta: “Noi non ci immischiamo con i carabinieri, non ci immischiamo con Falcone e Borsellino… queste vergogne sono”. Era infuriato perché aveva saputo che la figlia di una sua amica avrebbe partecipato con la scuola alle iniziative in ricordo delle stragi di Capaci e via D’Amelio in cui persero la vita i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e gli agenti di scorta. Dopo aver apostrofato la donna come “sbirra”, sottolineò come lui non avesse mai prestato il consenso alla partecipazione a queste iniziative.
Continua il giudice: “Si colloca nel medesimo solco, ed è per la verità ancora più sconcertante, il fatto che la ‘formazione’ mafiosa non abbia risparmiato nemmeno una bambina in tenera età che, dopo lunga preparazione, si accingeva a partecipare a una iniziativa scolastica in memoria dei rimpianti Giudici Borsellino e Falcone”.