La prima bella notizia è questa: oggi la Commissione regionale antimafia, presieduta da Antonello Cracolici, si riunisce a Favara. Bel segnale per i cittadini, non solo favaresi, alle prese da sempre con un fenomeno criminale che ha penalizzato la crescita sociale, morale, economica dell’intero territorio che ha sguazzato in uno stagno maleodorante gravido di illegalità diffusa.
Si comincia alle 11 in Municipio, nel tentativo di disegnare una nuova mappa del potere mafioso nelle varie province siciliane.
La commissione incontrerà il prefetto di Agrigento, Maria Rita Cocciufa, il questore Emanuele Ricifari, il comandante provinciale dei carabinieri, Vittorio Stingo, il comandante provinciale della Guardia di finanza, Rocco Lopane, il capo centro della Dia di Palermo Alessandro Mucci, e il capo sezione Dia di Agrigento, Roberto Cilona. Poi, dalle 13 in poi, ma, inevitabilmente, gli orari saranno quasi certamente modificati, la commissione incontrerà il procuratore aggiunto presso la Dda al Tribunale di Palermo, Paolo Guido, il procuratore capo facente funzioni di Agrigento, Salvatore Vella e il procuratore capo di Sciacca, Roberta Buzzolani. Nel mezzo delle audizioni ci sarà, dopo mezzogiorno, un incontro con i giornalisti e poi, a seguire, saranno ascoltati i sindaci dei comuni della provincia su questioni relative alla presenza della criminalità mafiosa nei rispettivi territori. Ottima iniziativa che avrà certamente effetti immediatamente positivi in tema di attenzione e conoscenza del fenomeno mafioso.
Ecco, appunto, conoscenza del fenomeno mafioso, e siamo alla seconda notizia bella.
L’altro giorno si è insediato il nuovo questore di Agrigento, Emanuele Ricifari, catanese risoluto con tante medaglie al petto frutto di un proficuo lavoro svolto in gran parte fuori Sicilia. Le ultime due tappe del suo percorso professionale lo hanno portato proprio nella nostra Trinacria. Prima questore a Caltanissetta con i lusinghieri risultati noti a tutti e, adesso, ad Agrigento dove troverà a confrontarsi con una realtà mafiosa molto complicata, diversa, per mille ragioni, da quella palermitana e catanese che le cronache di tutti i giorni ci hanno mostrato.
Ricifari arriva ad Agrigento e dimostra di avere le idee ben chiare. Sollecitato da una nostra specifica domanda che ha squarciato il contesto monotematico della conferenza legato esclusivamente all’immigrazione, pronuncia, come riportato dalle agenzie le frasi seguenti: “Agrigento non è solo Lampedusa. Qui c’è uno storico retaggio mafioso. Conosco bene il fenomeno per averlo trattato, come questore, nell’area nissena. Sono due realtà attigue geograficamente, ma anche a livello antropologico e di famiglie. La mafia non è più la stessa. Gli stiddari esistono ancora anche se hanno abbassato l’aggressività, gli esponenti o sono in galera o sono sotto misure di sorveglianza e c’è una lente che li monitora”.
Poi, non riportato dalle agenzie, pronuncia anche due cognomi: Caruana e Cuntrera. Ed aggiunge: “La mafia non è più la stessa e l’esperienza mi dice che qui forse sta percorrendo una strada abbastanza simile da quella percorsa altrove già negli anni Settanta dal clan Caruana – Cuntrera. Oggi gli epigoni che probabilmente non hanno neanche precedenti stanno seduti nei consigli d’amministrazione delle multinazionali o delle banche del Nord o del Nord Europa. Se così è dobbiamo pensare di avere davanti un fenomeno che si è da un lato inabissato, dall’altro ha semplicemente cambiato i territori commerciali su cui fa i propri affari che oggi sono il gioco, le scommesse, le rivendite h 24, le grandi forniture e persino lo street food. La provincia di Agrigento qua è nata nei secoli, quella delle acque, quella agraria, quella del latifondo, quella dei campieri. Per cui è un fenomeno antropologico, che è una mentalità e un modo di pensare, fare, essere e vivere.
E qui comincia un’altra storia. Fatta di studio, applicazione e conoscenza dei diversi livelli di criminalità mafiosa esistenti in questa difficile realtà territoriale.
Da un lato la mafia di Riina, Provenzano, Bontade, Brusca, quella stragista; dall’altro la mafia trans-nazionale del potere economico, della politica di primissimo piano creata alla fine degli anni 50 dai “siculianesi” ossia dalle famiglie divenute clan dei Caruana e Cuntrera.
Mafia di altro pianeta, dove la coppola è stata sostituita dal computer, dove la lupara è stata soppiantata dallo smart-phone. Nulla a che vedere con rifugi ricavati in vecchie e sperdute masserie come nel caso di Bernardo Provenzano e niente pane e cicoria. Da decenni il luogo naturale di questo gruppo criminale trans-nazionale sono le sedi internazionali di Borsa e le migliori università di caratura mondiale.
Vediamo di capire meglio avendo presente come funziona una grossa azienda.
Ci sono i dipendenti alla base e poi c’è una governance, l’organo decisionale che esprime il consiglio di amministrazione e l’uomo forte che indica la strada da percorrere, le decisioni da prendere.
Ecco, in Cosa nostra funziona esattamente così. In provincia di Agrigento di uomini forti e di governance ne sono cambiate parecchie. E, ad ogni cambiamento di potere, si è registrato automaticamente un mutamento nelle famiglie, nei clan, nei capi, negli uomini fedeli al vertice.
Tutti all’interno della stessa struttura ma chi comanda, esprime la governance su tutta la provincia.
Per tentare l’ambiziosa azione di ricostruire gli assetti operativi di Cosa nostra agrigentina, con nomi, cognomi e facce di chi la sorregge, bisogna conoscere e far ricorso alla storia.
E, dunque, occorre fare parecchi passi indietro nel tempo.
Gli arresti di Maurizio Di Gati, Giuseppe Falsone e Gerlandino Messina (tra il 2004 ed il 2010) hanno chiuso la stagione dei grandi latitanti nell’agrigentino e imposto una necessaria riorganizzazione di tutte le famiglie. I tre mafiosi appena citati sono stati per anni espressione del potere mafioso in provincia di Agrigento, il vertice assoluto.
Cos’è successo da allora fino ad oggi? Come si sono ri-organizzate le famiglie dopo la fine della stagione dei latitanti? Chi sono gli uomini d’onore che oggi esprimono la governance di Cosa nostra agrigentina?
Si può ricostruire tutto ma è necessario studiare, cercare storia, ricordi e imprese mafiose. Ed immagazzinare dati. Che torneranno sempre utili.
Come già anticipato, bisogna distinguere due tipi di mafia.
Due tipi e due modelli di criminalità organizzata che hanno come caposaldi le stragi, il tritolo e l’acido per squagliare i bambini (la mafia odierna che passa dai corleonesi sino ad arrivare a Matteo Messina Denaro ed ai nostri Di Gati, Totò Fragapane, Carmelo Colletti, Gerlandino Messina e Peppe Falsone) oppure quella delle quotazioni in borsa, delle grandi costruzioni come il raddoppio del ponte sul Bosforo, le olimpiadi di Montreal, il tentativo di fare il ponte sullo Stretto di Messina o le alleanze politiche e mafiose in Europa, America, Sudamerica e Nordamerica.
In questo caso la storia ci porta dritti al clan Caruana e Cuntrera, un manipolo di siculianesi (da Siculiana, provincia di Agrigento) che hanno creato un impero, anzi, molto di più: un antistato transnazionale con riferimenti diretti in Usa, Canada, Venezuela, Colombia, Italia, Inghilterra, Olanda, Svizzera, e le borse di tutto il mondo.
Sono i cosiddetti “siculianesi”, gli uomini che oggi sono rappresentati mafiosamente dai Rizzuto (famiglia originaria di Cattolica Eraclea, comune confinante con Siculiana) le cui propaggini adesso ci portano anche in Italia ad Ostia, per esempio, teatro di clamorose vicende mafiose.
Provate a trovare un corleonese alle prese con le operazioni di borsa. Lo fece l’ex sindaco di Palermo, Vito Ciancimino. Ma dovette rivolgersi proprio a loro, i Caruana e Cuntrera, per locupletare il denaro e gli investimenti di provenienza illecita.
La letteratura mafiosa quella a noi più nota ci porta ben più miseramente ad altri scenari.
Non può tacersi che la mafia agrigentina, quella che conta, ha sempre avuto negli anni un potere estremo e rivoluzionario rispetto all’intero organigramma mafioso siciliano.
E’ msufficiente immaginare cosa ha prodotto Cosa nostra agrigentina nell’ultimo mezzo secolo: influenti uomini politici, potentissimi imprenditori, mafiosi che hanno guidato persino la Cupola regionale (Giuseppe Settecasi e Gigino Pizzuto, entrambi assassinati dai corleonesi) in periodi diversi.
E la mafia agrigentina (così come la Stidda) ha saputo farsi notare anche per la ferocia dei suoi atti criminali (oltre ai noti delitti dei giudici Rosario Livatino e Saetta, del maresciallo Giuliano Guazzelli) e vanno ricordati il primo delitto eccellente e di Stato: l’omicidio del commissario di Ps Cataldo Tandoy avvenuto il 10 marzo 1960 e che lasciò sul selciato del Viale della Vittoria il povero ed innocente studente licatese, Ninni Damanti; l’uccisione, con un attentato dinamitardo compiuto il 10 agosto 1976, di due persone innocenti, madre e figlioletta di quattro anni.
E’ possibile, dunque, analizzare per contrastare efficacemente il fenomeno agrigentino sino ai tempi nostri avendo ben e in mente che siamo ai piani molto bassi e diversi da quelli realizzati dal clan Caruana e Cuntrera il cui spessore criminale impegnò parecchio Giovanni Falcone grazie alle rivelazioni di Tommaso Buscetta e poi di Totuccio Contorno, ed ancora dopo dal boss transnazionale Francesco Di Carlo, divenuto pentito, con un ruolo determinante nelle vicende legate al crac del Banco Ambrosiano, nella morte del suo presidente Giorgio Ambrosoli e sull’orribile morte di Roberto Calvi e Michele Sindona, il banchiere maledetto che, secondo alcuni boatos (ma anche esiti investigativi) trascorse parte della sua latitanza – camuffata da ferimento – a Racalmuto sotto la copertura mafiosa del boss italo – americano Joe Macaluso.
Ultimo promemoria: nella mafia agrigentina, a differenza delle altre consorterie in Sicilia, vi è un ciclico e costante ritorno al passato: personaggi che sembravano sulla via del tramonto o peggio ancora scomparsi del tutto sono riapparsi, anche attraverso loro eredi nei posti di comando della gerarchia mafiosa. Il vincolo della consanguineità, nella nostra terra, prevale su tutto.
E così spariscono e ricompaiono. Sempre.