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Sgalambro e il miracolo del pessimismo

Manlio Sgalambro, di cui il 7 dicembre ricorre il centenario della nascita, era padre di cinque figli innanzitutto, poi cantante pop e filosofo europeo (come si autodefiniva). Un filosofo che scriveva canzoni per esprimere bellezza. Era un uomo felice di stare in Sicilia. Benché, dai contributi speciali, l’isola fosse stata ormai trasformata “in un terreno impiegatizio omologato e triste”. Non più l’isola aspra e dura, ricca di saperi, di pastori e di agricoltori. Per lui la Sicilia esisteva solo come fenomeno estetico, nel momento felice dell’arte.

A Lentini – dove è nato nel 1924, lo stesso paese di Gorgia il Sofista e di Jacopo il Notaro – era il figlio del farmacista, “uomo integerrimo”. A Catania ha studiato al Collegio dei Salesiani, “facendo – ci dice – ipotetiche trame antifasciste”. A cinquantotto anni scrisse il primo testo di filosofia: aveva torturato tanto la realtà, con il metodo di un inquisitore, da essere giunto alla verità. Ma il suo incontro con la filosofia avviene molto tempo prima. Ed era tempo di guerra.

“Gli Alleati – racconta – avevano appena liberato la Sicilia. In punti insoliti della costa arrivavano barche cariche di tutto: pasta, salumi, stoffe, a volte persino libri. Ero presente a uno di questi sbarchi, e ricordo il passar di mano di due volumi di Schopenhauer, editi da Laterza: Il mondo come volontà e rappresentazione. Li comprai, e fu un incontro decisivo. Leggevo, smozzicavo, cercavo di capire. Fu una vera vacanza dello spirito”. E dice questo (intervista al Corriere della Sera dell’agosto 1996) quasi a introdurre il suo semplice discorso su cosa sia diventato il filosofare.

Un filosofare che “ha perso il suo luogo”. Costretto entro i confini delle aule universitarie, da cui “risuona uno squittio di topi”. A vantaggio dei professori che dovrebbero pensare per noi, “ci sentiamo defraudati del potere di interrogare e di rispondere”.

Questo è il quadro per Sgalambro. E gli fa dire che “uno si porta il filosofare con sé: non è la cattedra a garantire serietà”. Il luogo vero del filosofare è la piazza. Dove “hai a che fare con passioni, emozioni, ragionari che ti investono in prima persona”. Odiava  Taormina in quanto luogo di vacanza, “paese trastullo”. Per chi cerca emozioni concettuali non c’è nulla di peggio, in quest’era del superfluo, del “divertimento collettivo obbligatorio”. Altri erano per Sgalambro gli aspetti della gioia: non vivere per vivere, ma vivere per conoscere. Solo questo poteva essere ancora desiderabile e avere un senso. Della cultura italiana dava un giudizio tranchant: dopo l’Unità è diventata “qualcosa di miserabile”. Una cultura “politicizzata in maniera estrema”. Prima era stata risorgimentale, poi nazionalista, fascista, infine “impegnata”. Non c’è stata cultura se non politica: e questo al filosofo di Lentini non piaceva. Nella mafia vedeva il nostro topos eterno: “non ci ha mai consentito di verificare se eravamo qualcos’altro, noi siciliani”. E a un certo punto l’antimafia è diventata “la misura di tutto, per anni: come se non fosse lecito riconoscerci altra volontà politica”.

I giovani hanno avuto tutta la sua comprensione. La fine d’ogni idea di società migliore, giusta (comunismo, sinistra) li ha privati della possibilità di sognare. Ai ragazzi siciliani “è stata somministrata una rappresentazione del lavoro poco seria e poco rispettabile fatta di capannoni presto vuoti e inutili, dove l’industrialismo è stato un fenomeno artificioso, scherzo dei politici, giocattolo, assistenza”. A questi ragazzi Sgalambro diceva che il lavoro non migliora un bel niente, “non risolve nessuno dei problemi essenziali della vita”. Gli diceva: “Rimanete qui, non andate a fare i lustrascarpe al Nord”.

Un filosofo per il quale l’ottimismo non è certo il profumo della vita. Un filosofo per il quale la verità si dice, non si dimostra. E la verità è che noi abitiamo il peggiore dei mondi possibili, senza bisogno di dimostrarlo e di dimostrare alcunché. L’opposto di quel che pensava sul mondo il dottor Pangloss di Voltaire.

Sgalambro era schopenhaueriano, “era Schopenhauer”– dice Massimo Cacciari. Ѐ vissuto sino alla veneranda età di 89 anni e ha scritto tanti libri. Quello che voglio segnalare è La conoscenza del peggio. Un libro del 2007. Nel quale ci dice appunto che non c’è bisogno di dimostrare che “non ci sia niente di peggiore del mondo”. Il suo disperato pessimismo si fa elemento conoscitivo; e per l’umanità miracoloso metodo educativo.“Dacché sai cos’è il mondo, ti diverrà più lieto viverci. Ecco il miracolo del pessimismo”. Non per nulla Tolstoj diceva che Schopenhauer è importante perché istruisce, consola e diverte.

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Redazione