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Trentadue anni fa la strage di via D’Amelio, un infinito depistaggio alla luce del sole

di AGI. La strage piu’ misteriosa fra quelle messe a segno da Cosa nostra siciliana e’ ancora in larghissima parte senza verità: in attesa che la Corte d’appello di Caltanissetta depositi le motivazioni della sentenza di secondo grado, nel processo sul depistaggio delle indagini e in attesa dell’udienza preliminare contro gli altri poliziotti imputati degli stessi reati attribuiti ai loro colleghi Mario Bo, Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo (che hanno beneficiato della prescrizione, dunque non sono stati affatto scagionati), rimangono tanti interrogativi sulla fine del giudice Paolo Borsellino e dei cinque agenti di scorta assassinati assieme a lui, il 19 luglio 1992, in via D’Amelio. Un eccidio evitabile, anche se mai nessuna indagine ha affrontato con scrupolo e convinzione il perche’ della mancata istituzione di una zona rimozione impantanata nei meandri di una burocrazia cieca e assetata di ferie, che non seppe provvedere tempestivamente a proteggere in modo adeguato e severo tutti i luoghi frequentati dal magistrato piu’ ad alto rischio, dopo la strage Falcone: eppure quell’aspetto – le auto posteggiate sotto casa della madre del procuratore aggiunto di Palermo – e’ stato omesso, taciuto, bypassato, nei tre decenni e rotti che separano da quei fatti. Perche’ probabilmente non ci furono collusioni ma solo una assurda leggerezza di quelle istituzioni, dal Comune di Palermo alla prefettura, che avrebbero dovuto decidere e non lo fecero. La stessa leggerezza di chi non riusci’ a impedire che sparisse l’agenda rossa su cui Borsellinoannotava pensieri, riflessioni, appunti relativi al suo lavoro: solo una decina d’anni dopo, grazie al riordino di un archivio fotografico da parte di Franco Lannino, il giornalista e fotoreporter ritrovo’ gli scatti che aveva fatto pochi minuti dopo che l’autobomba era esplosa e che ritraevano un capitano dei carabinieri, pettorina e distintivo al collo, mentre si allontanava tenendo in mano la borsa di Borsellino, in cui verosimilmente c’era l’agenda, la cui posizione, passata al vaglio di tante indagini, non e’ mai approdata a un processo, ma e’ stata sempre archiviata. 

Cosi’ come la memoria non aiuta a ricordare i (vani) tentativi degli avvocati del primo processo Borsellino, quello nato dalle dichiarazioni del “pentito” Vincenzo Scarantino, di smentire colui che appariva a tutti gli effetti un collaboratore di giustizia costruito a tavolino. Gli avvocati finirono sotto inchiesta, ci furono controdenunce nei confronti dei magistrati che all’epoca conducevano le indagini, Annamaria Palma e Nino Di Matteo, coordinati dall’allora capo della Procura di Caltanissetta, Gianni Tinebra. I pm sostenevano che la mafia volesse far ritrattare Scarantino per impedire l’accertamento della verita’ e in effetti i legali verosimilmente ricevevano pressioni dai clienti, vincolati da codici di un onore deviato e farlocco ma pur sempre consapevoli che quel picciotto di borgata nulla sapesse di un fatto epocale come la strage di via D’Amelio, in cui nessuno di loro imputati aveva realmente avuto una parte: l’inchiesta fini’ a Catania, per il coinvolgimento di togati nisseni e fini’ anche in questo caso in un nulla di fatto. Mentre gli imputati furono tutti condannati all’ergastolo, per essere poi scagionati e liberati a vent’anni di distanza. Dietro quel falso pentito c’era un’operazione raffinatissima, raccontano le cronache e i processi di oggi: nella difficolta’ estrema di ricostruire fatti avvenuti ormai anche piu’ di trent’anni fa, i personaggi centrali sono stati individuati in due persone morte, Tinebra e il capo della squadra FalconeBorsellino della questura di Palermo, Arnaldo La Barbera, ex collaboratore del Sisde col nome in codice di Rutilius. Loro avrebbero messo in piedi il “colossale depistaggio”, ingannando anche i magistrati (Di Matteo era alle prime esperienze, mentre la Palma, andata in pensione di recente da avvocato generale di Palermo, non era certo inesperta) e puntellando Scarantino quando vacillava, aveva crisi di “vocazione” o piu’ semplicemente rigurgiti di onesta’ che lo portavano a tentare di uscire da quella macchina infernale in cui era stato coinvolto – probabilmente – a suon di botte, da un La Barbera aduso a seguire metodi spicci e senza troppi freni inibitori. Tutto alla luce del sole, come l’intervista che il falso pentito riuscì a rilasciare al giornalista di Italia 1 Angelo Mangano e con i magistrati pronti, il giorno dopo, a presentarsi con gli investigatori nella località ligure in cui Scarantino era protetto.

Mentre la cassetta originale dell’intervista – fatto piu’ unico che raro, in un Paese democratico – venne sequestrata e fatta sparire. E nessuno allora gridò allo scandalo: perche’ Italia 1 era di Berlusconi e dietro i tentativi di far ritrattare Scarantino c’era la mafia, secondo la versione fatta filtrare da La Barbera, all’epoca incensato e corteggiato da tanti cronisti, nonostante la sua notoria durezza e sbrigativita’. Ma l’identica tesi – il depistaggio sarebbe consistito nel far tacere Scarantino – era sostenuta anche dagli stessi pm, non solo da Tinebra. Dipanare questi misteri che si manifestarono alla luce del sole non e’ semplice: i giudici di appello nisseni hanno applicato la prescrizione non solo a Bo e Mattei, che gia’ l’avevano avuta in primo grado, ma pure a Ribaudo (ex scrivano della Squadra mobile di Palermo), sostenendo implicitamente che per tutti e tre il reato sussiste, non c’e’ l’agevolazione di Cosa nostra ma in ogni caso non e’ punibile per via del lunghissimo tempo trascorso dall’epoca dei fatti. In attesa del deposito delle motivazioni, un altro mistero si e’ aggiunto in questi torridi giorni d’estate, torridi come i 57 giorni che separarono la fine di Falcone da quella di Borsellino: ed e’ il mistero del rapporto Mafia e appalti, firmato dai carabinieri del Ros e mai coltivato dalla Procura di Palermo, sebbene la famiglia del magistrato ucciso avesse piu’ volte ribadito come l’allora procuratore aggiunto, vice dell’inviso Pietro Giammanco, credesse in quell’ampio lavoro portato avanti dai militari di Mario Mori e Giuseppe De Donno. Di recente si e’ aggiunto un nuovo capitolo, un fascicolo che era stato trasmesso a Palermo dalla Procura di Massa Carrara, che aveva evidenziato collegamenti tra i fratelli imprenditori di Palermo Antonino e Salvatore Buscemi con i vertici del Gruppo Ferruzzi, Giovanni Bini, Lorenzo Panzavolta e Raul Gardini. Quel fascicolo conteneva intercettazioni oggi giudicate molto interessanti se non fondamentali, di cui aveva trovato traccia il legale di parte civile per la famiglia Borsellino, l’avvocato Fabio Trizzino (marito di Lucia e dunque genero di Paolo Borsellino): ma le bobine dovevano essere smagnetizzate e i brogliacci redatti dalla Guardia di finanza distrutti, perche’ la procura non li aveva ritenuti rilevanti. Ora su quest’altra archiviazione, che la nuova procura nissena, diretta da Salvatore De Luca, ritiene inopinata e incomprensibile, si e’ tornati a indagare, trentatre anni dopo. C’e’ pero’ una difficolta’ oggettiva, perche’ a disporla fu un pm mai tacciato ne’ sospettato di collusioni, Gioacchino Natoli, che ha chiuso la carriera da togato come presidente della Corte d’appello di Palermo, ma dopo essere stato giudice istruttore del pool di Falcone e Borsellino e componente del pool antimafia di Gian Carlo Caselli, in Procura. Puo’ un magistrato cosi’, che tra l’altro sostenne l’accusa nel processo Andreotti, avere depistato anche lui, nella vicenda dei mille depistaggi? Un altro mistero siciliano finora senza risposta. 

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Redazione