Poco meno di 3000 pagine per scrivere le motivazioni della sentenza di appello del processo di appello della cosiddetta trattativa tra Stato e mafia con cui la Corte di assise di appello di Palermo, il 23 settembre scorso, ha ribaltato il verdetto di primo grado.
Le motivazioni sono state depositate in cancelleria ieri nel tardo pomeriggio. Il giudice estensore, Vittorio Anania (a latere nel processo) e il presidente della Corte di assise d’appello, Angelo Pellino, hanno avuto la necessità di prendersi tutto il tempo necessario per “motivare” la sentenza con cui – attraverso la formula “perchè il fatto non costituisce reato” – hanno assolto l’ex senatore Marcello Dell’Utri, l’ex capo del Ros, il generale Mario Mori, il generale Antonio Subranni e l’ufficiale dei carabinieri Giuseppe De Donno.
Con la stessa sentenza, la Corte di assise di appello aveva ridotto la pena a 27 anni per il boss corleonese Leoluca Bagarella e confermato quella per il medico-boss Antonino Cinà. In primo grado – nel maggio 2018 – erano stati condannati a 28 anni di carcere il boss Leoluca Bagarella, a 12 anni Dell’Utri, Mori, Subranni e Cina’ e a 8 anni per De Donno
Ros agì per fermare le stragi
“Una volta assodato che la finalità perseguita, o comunque prioritaria, non fosse quella di salvare la vita all’ex ministro Mannino o ad altre figure di politici che rischiavano di fare la fine di Lima, nulla osta a riconoscere che i carabinieri abbiano agito avendo effettivamente come obbiettivo quello di porre un argine all’escalation in atto della violenza mafiosa che rendeva più che concreto e attuale il pericolo di nuove stragi e attentati, con il conseguente corredo di danni in termini di distruzioni, sovvertimento dell’ordine e della sicurezza pubblica e soprattutto vite umane”, scrive la Corte d’assise d’appello di Palermo nelle motivazioni della sentenza sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia, spiegando le ragioni dell’assoluzione dal reato di minaccia a Corpo politico dello Stato gli ex ufficiali del Ros dei carabinieri Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno, condannati invece in primo grado. Per la corte la decisione di avvicinare l’ex sindaco mafioso Vito Ciancimino per iniziare a dialogare con pezzi di Cosa nostra sarebbe stata presa proprio per evitare nuove stragi. “Ad avviso di questa Corte, all’esclusione della colpevolezza degli ufficiali dell’Arma per carenza dell’elemento soggettivo – spiegano i giudici – deve ugualmente pervenirsi per la radicale incompatibilità della finalità perseguita con la loro improvvida iniziativa, che era certamente quella di fermare l’escalation di violenza mafiosa ed evitare nuove stragi, con il dolo di minaccia”. Secondo i giudici le finalità dell’azione intrapresa da Mori e i suoi dunque sarebbero incompatibili con la tesi dell’accusa che sosteneva che con il loro comportamento i carabinieri avessero rafforzato i propositi minacciosi del boss Totò Riina.
Marcello Dell’Utri
”Non si ha prova, in altri termini” che l’ex senatore di Fi Marcello Dell’Utri “nonostante le sue ramificate implicazioni nell’antefatto”, “abbia portato a termine quel progetto ricattatorio/minaccioso di cui pure egli aveva piena conoscenza per volere degli esponenti di Cosa Nostra ed a seguito delle sue reiterate interlocuzioni, intercorse fino a dicembre del 1994, in particolare con Vittorio Mangano”. ”Muovendo dalla posizione di Marcello Dell’Utri – scrivono i giudici – si è avuto modo di osservare che difetta la prova certa che lo stesso abbia fatto da tramite per comunicare la rinnovata minaccia mafiosa/stragista sino a Berlusconi quando questi era Presidente del Consiglio dei Ministri così percorrendo quello che, per opera di semplificazione, può essere individuato prosegue la Corte di assise di appello – come “l’ultimo miglio” percorso il quale il reato sarebbe stato portato a consumazione…”.
Trattativa a metà fra quella politica e di polizia
“Un disegno certamente ambizioso che si collocava in posizione intermedia tra la vera e propria trattativa politica e una mera trattativa di polizia”. Lo scrive la Corte d’assise d’appello di Palermo nelle motivazioni della sentenza d’appello del processo alla presunta trattativa Stato-mafia. “Il disegno insomma era quello di insinuarsi in una spaccatura che si sapeva già esistente all’interno di Cosa Nostra e fare leva sulle tensioni e i contrasti che covavano dietro l’apparente monolitismo dell’egemonia corleonese, per sovvertire gli assetti di potere interni all’organizzazione criminale, assicurando alle patrie galere i boss più pericolosi e favorendo indirettamente lo schieramento che, per quanto sempre criminale, appariva tuttavia, ed era, meno pericoloso per la sicurezza dello Stato e l’incolumità della collettività rispetto a quello artefice della linea stragista”.
Trattativa c’è stata ma solo per fermare le stragi
“Scartata in partenza l’ipotesi di una collusione dei carabinieri con ambienti della criminalità mafiosa; e confutata l’ipotesi che essi abbiano agito per preservare l’incolumità di questo o quell’esponente politico, deve ribadirsi che, nel prodigarsi per aprire un canale di comunicazione con Cosa Nostra che creasse le premesse per avviare un possibile dialogo finalizzato alla cessazione delle stragi, e nel sollecitare tale dialogo, furono mossi, piuttosto, da tini solidaristici (la salvaguardia dell’incolumità della collettività nazionale) e di tutela di un interesse generale – e fondamentale – dello Stato”. I giudici d’Appello confermano dunque l’esistenza di una trattativa definita “improvvida iniziativa”. “Vito Ciancimino fu contattato, prima da De Donno poi anche da Mori personalmente, sì, certamente per acquisire da lui notizie di interesse investigativo, ma, nel contempo, anche con il dichiarato intendimento di tentare di instaurare, attraverso lo stesso Ciancimino, un dialogo con i vertici mafiosi finalizzato a superare la contrapposizione frontale con lo Stato che i detti vertici mafiosi avevano deciso dopo l’esito del maxi processo e che era culminata già, in quel momento, con la gravissima strage di Capaci”.
Ingeneroso coinvolgere Scalfaro e Conso
“Avere ipotizzato anche nei confronti di eminenti personalità istituzionali, come il ministro Conso o il presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, un concorso oggettivo alla realizzazione del reato o un cedimento alla minaccia mafiosa, con il risultato di dover compiere poi acrobazie dialettiche per affrancarli da un giudizio postumo di responsabilità penale (facendosi leva sulla genuinità delle intenzioni o sull’aver ignorato i retroscena più inquietanti) a parere di questa Corte, oltre che ingeneroso e fuorviante, è frutto di un errore di sintassi giuridica”.
‘Si comprendono perplessità Borsellino archiviazione dossier appalti’
“Ben si comprendono le perplessità di Paolo Borsellino a fronte dell’opzione di chiudere con una richiesta di archiviazione le indagini del più importante procedimento istruito in quel momento storico dalla Procura di Palermo nell’ambito di quello specifico filone investigativo”. I giudici ricordano anche le “doglianze che Borsellino aveva personalmente raccolto nei suoi contatti con i carabinieri del Ros”. E fanno riferimento a quanto accadde nell’affollata assemblea plenaria che si tenne in Procura con i pm il 14 luglio del 1992, cioè appena cinque giorni prima della strage di via D’Amelio. “Il dottor Borsellino lo disse espressamente in quella assemblea”, dicono, come “ben rammenta Luigi Patronaggio”.