Nuovo colpo alla mafia palermitana. Il gip ha disposto 18 misure cautelari nei confronti di boss, gregari ed estortori del clan di Resuttana. L’indagine, coordinata dal procuratore Maurizio De Lucia e dall’aggiunto Marzia Sabella, ha disarticolato uno dei più ricchi mandamenti del capoluogo. “Hanno una città nelle mani”, dicevano alcuni uomini d’onore intercettati, riferendosi ai vertici della cosca. Gli indagati sono accusati a vario titolo di associazione mafiosa, estorsione, traffico di droga, detenzione illegale di armi, violazione dell’obbligo della sorveglianza speciale. Per 16 è stato disposto il carcere, per 2 i domiciliari.
Nell’operazione antimafia Resurrezione sono finiti in carcere i palermitani Agostino Affatigato, 63 anni, Benedetto Alerio, 36 anni, Salvatore Castiglione, 54 anni, Giuseppe Settimo D’Arpa, 51 anni, Girolamo Federico, 51 anni, Giuseppe Di Maria, 69 anni, Salvatore Genova, 65 anni, Carlo Giannusa, 53 anni, Sergio Giannusa, 66 anni, Francesco Leone, 63 anni, Giuseppe Mesia, 57 anni, Michelangelo Messina, 61 anni, Mario Muratore, 67 anni, Mario Napoli, 57 anni, Giovanni Quartararo, 55 anni, Michele Siragusa, 78 anni. Ai domiciliari, Sergio Tripodo, 71 anni e Francesco Balsameli, 64 anni.
Le indagini, condotte dalla Squadra Mobile e dallo Sco, hanno ricostruito l’organigramma del clan, ricostruito diversi episodi di estorsione ad attività commerciali ed imprenditoriali e accertato il controllo e la gestione dei servizi funerari presso l’ospedale di Villa Sofia di Palermo da parte della cosca. Il racket, che cosa nostra usa per mantenere il controllo del territorio e garantirsi il sostentamento dell’organizzazione e delle famiglie dei detenuti, si svolge secondo il classico copione della “messa a posto”, consistente nell’esborso di una somma di denaro da parte della vittima da far confluire nella “baciliedda” (bacinella ndr) a disposizione della cosca, o nel recupero dei crediti vantati da soggetti vicini alla “famiglia”. La gestione del pizzo avrebbe creato anche delle fibrillazioni tra i due mandamenti confinanti, Resuttana e San Lorenzo, definite nel corso di una riunione chiarificatrice tra i rappresentanti delle due famiglie.
Tra gli arrestati nel blitz contro il clan mafioso di Resuttana ci sono Salvatore Genova, accusato di essere il reggente del mandamento, e il suo luogotenente Segio Giannnusa. L’inchiesta nasce dopo la scarcerazione di Genova che dopo anni di detenzione al 41 bis, è tornato a Palermo e ha ripreso il contollo del mandamento. Con il ritorno in auge di Genova è tornato al comando anche Giannusa, uomo ombra del capomafia. Genova è uno storico alleato dei boss Salvatore e Sandro Lo Piccolo, da anni detenuti al carcere duro, ed è stato il referente per il sostentamento della famiglia del “patriarca” di San Lorenzo Francesco Madonia e dei suoi figli, fedeli alleati degli stragisti corleonesi. Incurante dei limiti imposti della sorveglianza speciale che gli è stata imposta dopo la scarcerazione, Genova a pochi giorni dal rientro a Palermo ha ripreso in mano gli affari della cosca cercando, però, di mantenere un basso profilo per sfuggire ale attenzioni degli investigatori. Attento a usare un linguaggio criptico durante le conversazioni coi sodali, intimava ai suoi di non portare mai il telefono durante gli incontri. “Senza niente, neanche spento”, dice non sapendo di essere intercettato un uomo d’onore riferendosi all’ordine ricevuto. Secondo gli inquirenti, Genova avrebbe partecipato a importanti vertici di mafia con Giuseppe Greco, il senatore, boss di Ciaculli, Giovanni Giordano della Noce e Giancarlo Seidita e Pietro Tumminia del clan di Altarello. Genova, dunque, aveva rapporti con i capi dei principali clan della città e, secondo i pm, impartiva ai sottoposti le indicazioni necessarie alla gestione delle estorsioni e sovrintendeva alle messe a posto anche fuori dai confini del suo mandamento. Di lui un favoreggiatore dei Graviano diceva: “è il tutto”.
È stata una conversazione intercettata ad incastrare Settimo D’Arpa, uno degli arrestati nel blitz antimafia di oggi contro il clan mafioso di Resuttana. L’uomo parla con la sua compagna al telefono e lei, nonostante il compagno la inviti a smettere, rivela chiaramente la sua appartenenza a Cosa nostra. “Te lo dico, fai lo scaltro, perché non chiami a tutti i mafiosi che hai…te lo dico davanti a tutti!”, dice lei. “Io non ne ho mafiosi”, tenta di difendersi lui. “Io non conosco nessuno di sti mafiosi…”, continua. Ma la compagna non si ferma. “Te lo giuro su dio, che se io ti vedo io ‘l’ho lasciato perché domandava il pizzo, ti giuro che lo faccio”. “Ma te ne accorgi delle cose che dici al telefono?”, sbotta preoccupato D’Arpa. “Sì perché la verità…è la verità”, insiste la donna. La discussione prosegue in un’altra telefonata. “Non siamo in via Sciuti, non siamo in via Notarbartolo che facevi spaventare i commercianti. Qua stai parlando con una persona”, dice lei senza mezzi termini. “Capito? Con una donna. Si, stai parlando con una donna, non stai parlando con un commerciante che vuoi intimorire le persone, perché sapete fare solo questo…”, lo apostrofa. “Io? – risponde D’Arpa – Ti sto pure bloccando nelle telefonate e messaggi. Ciao, buonanotte”.
I vecchi boss criticano le nuove leve mafiose e, ribadendo i vincoli indissolubili che legano gli affiliati a Cosa nostra, manifestano il loro disprezzo per i nuovi affiliati che, nonostante siano vincolati all’osservanza di un rigido codice d’onore, sarebbero a dire dei “vecchi” di bassissimo spessore. “No ‘cuci’ (cugino ndr) lo sai cos’è? Lo sai cos’è? Mi senti a me? Purtroppo, ormai la situazione è andata a scemare…Ormai fuori il novanta per cento delle persone danno confidenza a cani e porci!”, dice un affiliato al boss Sergio Giannusa che conviene: “Bravo! È la verità!”.
Il clan di Resuttana aveva il controllo, esercitato attraverso una stretta imposizione del pizzo, delle imprese di pompe funebri che gravitano attorno all’ospedale Villa Sofia di Palermo. Emerge dall’indagine dela Procura del capoluogo che oggi ha portato a 18 arresti. Diverse intercettazioni svelano le pressioni esercitate dai boss sulle agenzie. In una conversazione registrata due degli indagati, Michelangelo Messina e Sergio Giannusa, si mostrano indispettiti perchè, andati a riscuotere la “tassa” del clan, non trovano il titolare. All’impiegato dicono di riferire alla vittima che non avrebbe più lavorato. “Gli dici che se ne vanno, se ne devono andare tutti, si stannu a casa”, dicono. Sempre da un’intercettazione emergono i problemi nella riscossione del pizzo che il clan ha per le difficoltà economiche di una impresa. “Ti posso dare 500 euro ora. Siccome ho due morti, fammi incassare”, chiede la vittima al boss.
L’indagine della dda di Palermo che ha portato a 18 misure cautelari a carico del clan Resuttana ha accertato le complicità con i boss di alcuni professionisti e imprenditori. Tra i destinatari del provvedimento ci sono anche alcuni insospettabili, appartenenti alla cosiddetta “zona grigia” ed espressione delle contiguità tra professionisti locali, medi e piccoli imprenditori ed esponenti, anche apicali, del mandamento mafiosi. Tra gli indagati ci sono, infatti un commercialista, un notaio, sospettato di concorso in tentata estorsione aggravata dal metodo mafioso, un imprenditore edile, un imprenditore nel settore calzature, sospettato di concorso in associazione di stampo mafioso ed estorsione aggravata dal metodo mafioso ed infine un ristoratore. Il gip ha disposto il sequestro preventivo delle società Almost food srls e la Gbl food srls che gestiscono l catena di esercizi commerciali con insegna “Antica polleria Savoca”, che, secondo i pm , sarebbero in realtà imprese mafiose.
LE DICHIARAZIONI DEL QUESTORE DI PALERMO LARICCHIA
“L’operazione di polizia che stamani ha portato all’esecuzione di 18 misure cautelari, ha disarticolato il mandamento mafioso di Resuttana, decapitandolo del suo reggente e di altri uomini d’onore che ne costituivano figure di spicco nella gestione di sistematiche attività di estorsione ai danni di imprenditori di ogni ambito. Ma l’aspetto più rilevante consiste nell’aver portato alla luce la collaborazione alle attività criminali di professionisti, la c.d. borghesia mafiosa, che non ha esitato a mettere a disposizione le proprie competenze a vantaggio di cosa nostra. Ulteriore infiltrazione nell’economia si è realizzata mediante imprenditori della ristorazione che hanno a tutti gli effetti costituito una vera e propria impresa mafiosa insieme con il reggente del mandamento, con grave alterazione della concorrenza e della libertà di iniziativa economica. Questa operazione purtroppo fa emergere come, contrariamente al discorso pubblico ufficiale, una parte del mondo delle professioni e dell’impresa sia permeabile ai facili guadagni conseguiti attraverso l’utilizzo della forza intimidatrice della mafia”