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Brevi considerazioni a margine della giornata di sciopero indetto dall’Anm

Sono stato educato a rispettare la Legge, socraticamente anche quando non la condividevo, e sono per formazione culturale portato al dubbio e all’ascolto. Tra Socrate e Antigone ho sempre fatto il tifo per Antigone ma nella mia vita professionale ho sempre fatto riferimento all’obbedienza alla legge di Socrate. L’indiscutibile influenza cattolica nella mia formazione culturale mi fa guardare all’obbedienza come ad una indiscussa virtù.

Fatte queste premesse e non rinnegando nulla delle mie scelte professionali ed associative, scolpite, nel bene e nel male nel mio pubblico curriculum, devo confessare che, spenti i riflettori sullo sciopero dei magistrati, rimango molto turbato dall’isolamento politico, sociale e culturale in cui versa la magistratura.

Al netto della propaganda e della potenza di chi controlla i media e la comunicazione, non può lasciare sereni che la politica, con un fronte ampio non esclusivamente identificabile nella destra parlamentare, l’Avvocatura e l’Accademia, siano tutti concordi nel sostenere che il processo penale, nonostante le prescrizioni di cui all’art. 111 Cost., resti ancora un processo ingiusto, non garantito e squilibrato. L’unicità di reclutamento, di gestione delle carriere e la comunanza ideologica oltre che fisica fra giudici e P.M., sarebbero, secondo quell’ampio fronte, alla base di questo squilibrio e, cosa più grave, sarebbero fonte di ingiustizia per il cittadino.

Ora pur avendo molti argomenti per confutare tale impostazione, peraltro ampiamente declinati nelle varie assemblee pubbliche indette dall’Anm, non posso, con onestà intellettuale, non riconoscere che il PM, come è disegnato nella costituzione materiale di questo Paese, è un unicum nel panorama internazionale. I motivi sono essenzialmente tre: la totale autonomia e indipendenza del P.M. da ogni altro potere, il controllo totale ed assoluto della polizia giudiziarie e la possibilità, rafforzata dall’obbligatorietà dell’azione penale, di potere autonomamente prendere cognizione dei reati ed avviare ogni possibile indagine preliminare. Al Decidente, di qualsiasi colore politico, basterebbe paralizzare uno di questi elementi per ridurre drasticamente il peso del P.M. nelle dinamiche della gestione della giustizia nel Paese. A ben vedere dunque il vero nodo non è la separazione delle carriere (ormai ineluttabile a giudizio di chi scrive) ma la  necessità, avvertita da molteplici ed eterogenei schieramenti, di ridurre il peso del P.M. e di evitare che le sue scelte investigative possano creare un ostacolo alla politica e alla amministrazione nazionale, senza che tale potere possa essere sindacato se non all’interno del processo quando il danno, elettorale o anche solo di immagine, per chi gestisce la cosa pubblica è ormai arrecato a prescindere dall’esito del processo stesso.

Ora i padri costituenti avevano ben percepito il problema, e pur sostenendo fortemente l’obbligatorietà dell’azione penale come necessario corollario del principio di uguaglianza e la figura di un P.M. autonomo ed indipendente, avevano previsto una clausola di salvaguardia per la politica rappresentata dalla immunità parlamentare inscritta nell’originaria formulazione dell’art. 68 Cost. La logica della immunità parlamentare, in questa prima formulazione, non era quella di creare una casta politica privilegiata ma evitare ingerenze della magistratura inquirente nelle scelte politiche dei parlamentari.

A fronte dell’ondata giustizialista seguita allo scandalo di “mani pulite” (fenomeno che un certo revisionismo giudiziario tende oggi a minimizzare al di là della verità scolpita nelle sentenze passate in autorità di cosa giudicata), si è ritenuto che l’originario istituto dell’immunità parlamentare costituisse un ingiustificato privilegio di casta e con la Legge Costituzionale n. 3 del 1993 si è riscritto l’intero art. 68 Cost. riducendo lo scudo protettivo previsto a favore della classe politica.

Le cose non stanno in realtà così: quel sistema permetteva al P.M. di indagare liberamente ed autonomamente su tutto e su tutti (con ovvia esclusione degli atti di investigazione più invasivi), con ciò garantendo sia l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge che l’obbligatorietà dell’azione penale. L’esito di quelle indagini andava, tuttavia, verificato per l’ulteriore corso, da una Commissione Parlamentare che avrebbe dovuto valutare che dietro quell’indagine ci fossero delle prove consistenti e non ci fosse al contempo alcuna volontà persecutoria nei confronti del parlamentare indagato o del suo partito di appartenenza. Il sistema, purtroppo, non mancava di criticità, giustamente censurate dall’opinione pubblica di allora, atteso che sovente l’autorizzazione a procedere veniva negata solo per ragioni di solidarietà partitica senza alcuna giustificazione tecno-giuridica.

Ora io penso, che il motto “uno vale uno” sia una utopica visione della realtà e che invero c’è differenza nel processare un ladro di mele da un politico con responsabilità di governo e che pertanto il principio di uguaglianza, così come peraltro declinato dalla Corte costituzionale, non subisca menomazione alcuna se a situazioni differenti sia disposto un differente trattamento.

Un ritorno al passato, magari con qualche correzione formale ed una prassi applicativa più corretta, ritengo sia oggi preferibile a riforme affrettate frutto di contrapposizioni ideologiche e di interessi divergenti.

Non vedrei nulla di scandaloso, nel ripristinare la vecchia immunità parlamentare abolita nel 1993 se ciò possa servire ed alleviare il grave scontro istituzionale in atto che costituisce un pericoloso vulnus al corretto svolgimento della vita democratica.

 Sotto altro aspetto, osservo che la politica, anche quella associativa, ha il compito di ridurre le complessità di un fenomeno per trovare una soluzione condivisa. Personalmente e realisticamente, penso che dopo lo sciopero proclamato dalla Associazione Nazionale Magistrati occorra sedersi a un tavolo con la politica, non ignorando le ragioni di tutte le parti coinvolte sul grande tema della giustizia, per cercare una soluzione che vada al di là della separazione delle carriere che ritengo sia ormai una strada ineluttabilmente segnata.

Ancorarsi alla speranza di un esito favorevole di un referendum sulla riforma della giustizia, come scolpita nel disegno di legge governativo ed approvato dalla maggioranza del Parlamento, sarebbe peraltro oltremodo rischioso perché una conferma della riforma da parte dell’elettorato comporterebbe una delegittimazione e una caduta di fiducia nella magistratura, difficilmente colmabile nel medio e breve periodo, con gravi ripercussioni sugli equilibri istituzionali del Paese.

La magistratura si deve fare carico di un modello di giustizia “giusto”, veloce, efficiente, che riduca al minimo il rischio di arresti e condanne ingiuste, così come deve evitare ogni forma di spettacolarizzazione del processo. La magistratura associata, tuttavia, deve potere legittimamente ed autorevolmente interloquire con il Decidente su alcuni aspetti della riforma che appaiono oggettivamente punitivi per la magistratura tutta puntando:

ad un unico concorso di accesso in magistratura, ad una unica formazione professionale dei magistrati e ad un unico organo di autogoverno, diviso in due sezioni, una per i magistrati giudicanti e una per i pubblici ministeri, entrambi presieduti dal Presidente della Repubblica e ciò per salvaguardare la c.d. cultura della giurisdizione bene indisponibile di tutta la magistratura;

 ad una Alta Corte di Giustizia, unica per tutte le magistrature (ammnistrativa, contabile, militare e tributaria), con componenti che provengano anche dalla magistratura di merito e non solo di legittimità e con possibilità di ricorrere avverso le sue decisioni in Cassazione, giudice di legittimità di ultima istanza dell’ordinamento giudiziario italiano;

all’elezione dei componenti togati del CSM estratti a sorte da un’unica platea preventivamente selezionata in modo elettivo da tutti i magistrati (c.d. sorteggio temperato).
Cedere sulla separazione delle carriere mi sembra purtroppo ineluttabile, ma su alcuni punti della riforma non è possibile recedere, pena il dissolvimento del principio regolatore della separazione dei poteri, caratteristica di ogni moderno ordinamento democratico.  Cardini ineluttabili di ogni progetto di riforma sulla giustizia non possono non essere:

autonomia e indipendenza del PM garantita in modo netto in Costituzione;  

obbligatorietà dell’azione penale, ancorché mitigata dalle indicazioni provenienti dal Parlamento;

possibilità per il PM di prendere autonomamente cognizione delle notizie di reato;

dipendenza funzionale ed esclusiva della polizia giudiziaria dal P.M.  
Ci auguriamo, pertanto, che queste brevi considerazioni possano essere di aiuto al prossimo incontro fra la Presidente del Consiglio e la Giunta dell’Anm, nell’interesse supremo dei cittadini e del loro fondamentale ed ineluttabile diritto ad una giustizia “giusta”.

Luigi Patronaggio – Procuratore Generale in Cagliari

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Redazione